martedì 26 febbraio 2008

Tikako disse: non si può morire perché si è donne

A pag. 142 del n°5 (6 febbraio 2008) di Vanity Fair “vive” un gruppo di donne con i coglioni.
Alpaca gigante biondo mi perdonerà se ogni tanto rispolvero il linguaggio più efficace e diretto: quello “sboccato”.
Parità uomo-donna: non me ne può fregare di meno. Le discussioni nascono quando ci sono soggetti che si percepiscono inferiori e vorrebbero solo sentircisi e non esserlo. Non voglio parlare di questo.
Violenza sulle donne: siamo tutti, vagina o pene, soggetti a violenze, più o meno piccole, quotidianamente, sia mentali sia fisiche. Il dover attendere 2 ore davanti ad uno sportello in posta per pagare una bolletta è una violenza fattami subire da impiegati ex-statali, che a loro volta subiscono violenze dalla società privata per cui lavorano che li paga una miseria. Non voglio parlare di questo.
Donne sull’orlo di una crisi di nervi: gran bel film, ma siamo tutti, vagina o pene, sclerati. Non voglio parlare di questo.

Voglio parlare delle cose che cambiano. E che possono cambiare. E che le persone, in questo caso donne, hanno voluto e fatto cambiare.
“Il mare è fatto di gocce” è una stupenda frase fatta che uso sempre più spesso, ultimamente. Perché voglio credere (e penso) non sia solo “leggenda metropolitana infondente fiducia e ottimismo”.

Tikako è una delle 50 abitanti di Umoja, villaggio keniano in cui sono ammesse soltanto donne. Prima di fondare Umoja, Tikako ha subito mutilazioni genitali, violenze di ogni genere (psico-fisiche) e la perdita di ogni forma di femminilità. Come tutte le donne nate nelle tribù centro-africane e non solo. Tagliare il clitoride il giorno stesso in cui si viene data in moglie (dai 12-13 anni ai 17), le botte subite dai mariti (perché un marito che faccia bene il suo “ruolo” deve picchiare la moglie almeno ogni sera), i capelli rasati a zero (perché la donna non ha il diritto di apparire affascinante e femminile) sono alcuni dei dettagli più grossolani della vita di una donna nata nel posto sbagliato.

A Tikako, dopo l’ennesima violenza, girarono le palle. Pensò: “perché non ci facciamo un villaggio tutto nostro? Senza maschi? Per campare creiamo gioielli e li vendiamo ai turisti. Viviamo tutte assieme, così sappiamo chi è malata e chi ha bisogno di cibo, chi ha bisogno d’acqua e chi di un abbraccio”.
50 donne, ora, hanno formato un villaggio in cui non voglio uomini. Nel centro Africa, in Kenya.

La lettura di questo meraviglioso articolo di Imma Vitelli (che stimo molto in quanto curiosa al punto giusto per poter scrivere “oltre”) non mi ha lasciato indifferente. Non perché sconvolta da ciò che, nel 2008, accade ancora, soprattutto alle donne ma non solo, in gran parte del nostro mondo. Ma perché, nel 2008, c’è gente con le palle, alimentate dalla disperazione sì, ma pur sempre PALLE.
L’episodio ritrae donne con le palle. Ma sono cosciente delle palle (non scroto fisico) che hanno continuamente gli uomini.
Vagina o pene, non importa. Importa la voglia di voler essere “una goccia”

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