Dal medico ci si sente tutti vittime, della sfiga: perché mi sono ammalato proprio io, perché questo tipo di malattia proprio a me, per curarmi dovrò sprecare un sacco di tempo, per curarmi dovrò spendere molti soldi….perchè devo aspettare così tanto….
Qualche ora in attesa dal medico “di famiglia” vale più di una seduta da uno psicoterapeuta. Viene spontaneo sfogarsi, parlare del perché si sta aspettando così tanto il proprio turno, del cosa sta succedendo in famiglia e di quanto ci si senta stanchi e “vecchi”.
Il medico “della mutua” di paese, soprattutto del “paese” piccolo reggiano e comunista, è sempre sotto esame: sono gli anziani i giudici più severi sul suo operato, perché loro stessi sono i più grandi fruitori. Se non fosse che oltre ad essere anziana la maggior parte è anche rincoglionita, sarebbe interessante poter credere a ciò che dice o pretende di dire questa parte della popolazione.
Al mio arrivo in ambulatorio, sono stata preceduta di qualche secondo da una giovane madre meridionale ed i suoi piccoli figli: Alex e Maicol. La scelta dei nomi dei figli è stato per me un sentore. I figli, 3 e 6 anni, si sono esibiti per un’oretta in un’opera di prosa demenziale dal titolo “siamo il futuro dei giovani meridionali emigrati, tanta grinta e maleducazione”, la regia, sicuramente, dei genitori….la sceneggiatura, beh, un po’ personale, un po’ dei familiari. Il più piccolo dei 2 bambini aveva un tic alla mano: faceva in continuazione il dito medio alla madre, che, vergognandosi “come un cane”, faceva finta di non vederlo e\o di considerare il tic del bimbo come un nervo indipendente che ogni tanto gli faceva irrigidire il ditino. Il più grande, 6 anni, riempiva il piccolo di botte in testa: la madre, contenta, gli diceva “fai bene, così tuo fratello stà un po’ fermo”. All’arrivo di una amica meridionale della mamma meridionale, quest’ultima si alza ed accetta la proposta dell’amica: andare a fumare “una paglia” fuori. È stato per un attimo divertente e tragi-comico immaginarmi la scena di due donne dal medico perché ammalate, ferme in piedi al freddo, davanti alla porta del medico, intente a fumarsi una sigaretta parlando di ciò che loro stesse reputano i loro problemi esistenziali.
È il turno della famigliola meridionale. La madre entra dal medico col figlio più piccolo. Il più grande rimane in giro fuori e dentro la sala d’attesa. Durante “la paglia” con l’amica, la porta della sala d’aspetto che dà sul giardino-esterno rimarrà aperta, facendo prendere freddo a coloro ancora in attesa all’interno e permettendo a quest’ultimi di ascoltare ogni singola parola di confidenza con l’amica. Il figlio più grande, rimasto fuori dall’ambulatorio, si sente solo…raggiunge la madre e il fratellino entrando nell’ambulatorio del dottore senza bussare e spalancando per bene la porta in modo da far vedere per bene i rudelli della madre sul lettino intenta a dire trentatre.
I discorsi sulla sfortuna, sulle proprie disgrazie fisiche e non dei pazienti ancora in attesa non poterono che optare su un altro argomento: la maleducazione dei figli dei “terroni”. È stato bellissimo per me ascoltare con le mie orecchie parole in puro dialetto parmigiano (semi-reggiano): mi sono sentita protetta, a casa. Alessandra, in compagnia di una vecchietta, 2 anziani signori ed un giovane quarantenne… tutti originari di Gattatico, provincia di Reggio Emilia, ma di animo parmigiano ma pur sempre comunista, di comunione e lotta alla diversità locale, alla minaccia per la propria comunità. “Questi meridionali fan venire su i figli come bestie”, “bisogna insegnare ai propri figli l’educazione fin da subito, il rispetto…anche in maniere dure”, “….ma ha lasciato la porta aperta? Ancora? A casa loro hanno le tende….si vede che vivono nell’isola dei famosi…”, “Mamma mia, quello più piccolo diventerà un delinquente…”. Bravissimi. In dialetto, sempre… Rimarcate il territorio, il vostro, nostro, territorio… mi piacete, campanilismo fin da colazione….e anche per cena.
Una “comune”, in cui i toni si facevano pacati oppure forti a seconda delle parole che si pronunciavano, che si potevano far udire ai più nell’altra stanza, oppure far rimanere nell’intimità della sala d’aspetto di quei pochi…
Tutto è finito all’ingresso di un negro, ragazzo di colore un po’ sporco (muratore? bracciante?). I discorsi sono morti in bocca. Anche nelle bocche di coloro che le volevano ancora aprire, perché vogliose di dire ancora la loro… sguardi spaventati, all’aria…oppure fissi sul nuovo arrivato.
Nulla spaventerà la popolazione gattatichese (ma ho paura che il discorso possa essere esteso ovunque) più dell’extraterrestre “terrone” ed “extracomunitario”.
Non mi sento di chiamarmi fuori. Sono gattatichese anche in questo.
2 commenti:
Io non so se rispondere a questo post. So che risulterei pesantemente razzista.
Il mio problema è che non sono razzista tanto nei confronti delle persona di diversa razza, sono razzista nei confronti delle persona imbecilli.
Sono per il vivi e lascia vivere, ma finchè il lasciar vivere gli altri non mi fracassa i coglioni.
E odio la maleducazione gratuita.
Meno male che non ero in quell'ambulatorio.
Beh, meno male che non esci di casa...così spesso.... anche se dovresti farlo sempre di più...
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