venerdì 31 agosto 2007
Buone vacanze a ME!!!
Sì, anche per me è il momento. Parto oggi per le mie vacanze, brevi, ma volute con tutta me stessa dopo mesi in cui ho spremuto persino i capelli.
Se ne vedranno delle belle.... ne sono convinta..... in quanto io stessa ne farò parte :-)
A presto.
giovedì 30 agosto 2007
Fatemi una colletta per salvarmi il guardaroba autunnale
mercoledì 29 agosto 2007
Lupo-Billy e le crepes alla marmellata
E di Lupo-Billy.
Da pochi giorni si incazza se non mangia con me fin dal mattino.
Come dire di no a tanto "nero"?!?
martedì 28 agosto 2007
Qual è il grado di autonomia dell’individuo nella costruzione del sé nell’era della globalizzazione?
Il concetto di sé possiede una propria coerenza complessiva ed è relativamente stabile, almeno nel breve periodo. Ciò significa che l’individuo affronta i vari aspetti della vita quotidiana in modo tendenzialmente coerente con la consapevolezza che ha di se stesso e cercando di mantenere un’immagine stabile nei confronti degli altri. Ciò costituisce una parziale fonte di inerzia e di rigidità nel suo comportamento, nella misura in cui si sforza di rendere coerente quello che fa con quello che pensa di sé e con l’immagine che vuole trasmettere all’esterno[1].
Il concetto di sé può avere un impatto significativo sul comportamento del consumatore, in quanto spesso responsabile della considerazione e della valutazione dei prodotti, delle marche e dei punti vendita. Ad esempio, la valutazione positiva di certe marche può dipendere dal fatto che il loro uso venga considerato coerente con l’immagine che abbiamo e che vogliamo comunicare di noi stessi. Inoltre è possibile che alcuni prodotti siano preferiti non in quanto si adattino alla nostra immagine attuale, ma poiché corrispondono ad un concetto di noi stessi che vorremmo avere e proiettare sugli altri.
L’interazione col prossimo fa sì che il nostro self concept sia continuamente sottoposto a valutazione. Se la risposta degli individui è positiva l’individuo si sente tranquillo e la sua autostima cresce. Viceversa, se le reazioni degli altri sono negative o non soddisfacenti, l’autostima diminuisce e l’individuo cerca di modificare la propria immagine. Nonostante gli individui oggi siano sempre più autonomi, individualisti e consapevoli, l’influenza degli altri e dell’ambiente esterno opera, ancora, attivamente nella costruzione dei loro sé. I consumatori sono autonomi nell’atto della scelta degli oggetti, delle forme di acquisto ed appropriazione, ma non lo sono nella ricerca di questi, nella volontà di conoscere alternative di consumo più vicine al proprio “essere”. I consumatori sono, sempre più, i bersagli di coloro che comunicano messaggi “di scelte”, “di nuove necessità”, “di nuovi trend”, che loro faranno propri, ma che loro stessi non hanno voluto in principio e che non hanno cercato. I consumatori sono cercati per essere continuamente “adattati” all’evoluzione della società di cui fanno parte.
Il fenomeno della globalizzazione ha reso i consumatori più “bersagli”: più stimoli dalle diverse culture che si intrecciano, dalle diverse “tipicità umane” e di consumo esistenti nel mondo. Bauman in una recente intervista[2] addita i new media[3] come veicoli principali dei nuovi ed innumerevoli stimoli, ritenendoli causa dello sviluppo del “caleidoscopio delle mutevoli identità sociali”[4]. I new media hanno sviluppato nei consumatori una “onnivora insaziabilità culturale”[5] a tal punto da trattare il mondo come un “gigantesco grande magazzino con scaffali colmi delle offerte più svariate”[6]. Questo effetto di “extraterritorialità virtuale”[7], l’essere ovunque non essendoci fisicamente, si ottiene, secondo il sociologo, sincronizzando a livello planetario gli spostamenti dell’attenzione e gli oggetti di tali spostamenti. “Milioni, centinaia di milioni di persone guardano e ammirano le stesse star del cinema o le stesse celebrità della musica pop, si spostano all’unisono dall’heavy metal al rap, dai pantaloni svasati alle scarpe da ginnastica all’ultimo grido, si scagliano contro lo stesso nemico pubblico (globale), temono lo stesso cattivo (globale) e applaudono lo stesso salvatore (globale).”[8]
La pubblicità, nel suo essere per definizione divulgazione, diffusione tra il pubblico di dati, informazioni, fatti o simili, è l’oggetto dei new media, i quali la veicolano ovunque. Essa non ha mai risposto soltanto passivamente ai cambiamenti dei media, ma in molti casi si è trasformata in un fattore attivo del loro cambiamento. I pubblicitari sono stati attivi lobbisti nella commercializzazione dei media e nel favorire una loro riorganizzazione affinché seguissero i loro propri bisogni e orientamenti. All’incirca dopo il 1965 la pratica pubblicitaria si adatta alle condizioni multimediali del presente mercato. La stessa televisione è indotta ad individuare specifici tipi di pubblico richiesti dalle aziende committenti per poter competere con altri media che forniscono un accesso migliore a mercati locali e specializzati. La pubblicità è ora vista come una parte del marketing mix piuttosto che come la strada maestra nella promozione del consumo e le agenzie pubblicitarie abbracciano la gestione del marketing, una filosofia che comprende un’intera serie di procedure di ricerche di marketing e statistiche all’interno della preparazione delle campagne pubblicitarie. Questi pacchetti statistici si concentrano non sulla personalità, ma sulle attività dei differenti sottogruppi di consumatori, fornendo delle analisi sul loro utilizzo dei media, le loro preferenze di consumo ed i loro atteggiamenti e stili di vita. I risultati delle ricerche di marketing diventano le basi per le decisioni sul design e sull’acquisto dei media, permettendo così all’agenzia di formulare campagne di marketing indirizzate con precisione a particolari gruppi di compratori. Non ha senso rivolgere costosi messaggi televisivi a coloro che una qualsiasi ricerca sensata rivela essere destinati e determinati a rimanere indifferenti.
E' importante sottolineare come, oggi, non sia più opportuno parlare di consumo , di massa, come avveniva qualche decennio fa quando nasceva e si sviluppava anche nel nostro paese un processo di industrializzazione, e ciò per alcune ragioni essenziali: la pluralità di offerte che il sistema dell'industria attualmente propone; il crescente sviluppo tecnologico e la continua diffusione dei new media; la sempre maggiore segmentazione e frammentazione del pubblico. Infatti, secondo McQuail[9], oggi grazie alle maggiori opportunità di scelta di tipologie specifiche di contenuto offerte dai nuovi canali di distribuzione, si sono creati pubblici sempre più segmentati, omogenei al loro interno, e frammentati ovvero dispersi su un numero sempre crescente di fonti mediali. L'emergere della dimensione edonistica e di un nuovo sentimento tribale danno vita ad un'etica dell'estetica che vede nella comune fruizione di prodotti mediatici, nella condivisione di pratiche di consumo e di peculiari codici espressivi la matrice del legame sociale. Ispirandosi al pensiero di Maffesoli[10] è possibile sostenere che nell'epoca attuale si può scorgere l'esistenza di “tribù di consumo”, intendendo con tale espressione sottogruppi sociali che si autoselezionano sulla base di un interesse condiviso relativo ad una stessa classe di prodotto, una marca o un'attività di consumo. La società contemporanea tende sempre più a configurarsi come una “società mediale”, ovvero come una società in cui i media diventano un vero e proprio “ambiente di vita”, che dà forma alle esperienze cognitivo-emotive e socio-relazionali di individui e gruppi umani. Il consumo viene inteso come una pratica sociale dentro cui poter “leggere” complesse dinamiche di identificazione-proiezione che afferiscono al più articolato processo di costruzione dell'identità.
Nell’ipotesi che ciascuno sia inserito in una rete sociale di rapporti cui partecipa in termini di co-costruzione dei significati e pratiche di consumo, quest’ultime convergono in un unico “progetto” che è il divenire del soggetto, il realizzarsi e l'attualizzarsi dell'immagine del sé e del mondo. La condizione giovanile è un “prodotto” socio-culturale, oltre che una condizione biologica, rispetto alla quale le pratiche comunicative e di consumo fungono da veri e propri “habitat formativi”. Nel contesto di questo inedito scenario, i giovani crescono a stretto contatto con le molteplici sollecitazioni derivanti da un ricco e diversificato universo multimediale, sperimentando esperienze che vanno ben al di là di quelle che sono state considerate, fino a qualche tempo fa, “normali” esperienze di vita. Il passaggio dall'esperienza diretta delle cose alla loro rappresentazione contribuisce ad allargare a dismisura lo spettro esperienziale di ciascuno, anche se in una dimensione sempre più virtuale.
Nel corso degli ultimi decenni, il crescere della differenziazione non solo e non tanto strutturale (ovvero come moltiplicazione degli ambiti sociali), quanto piuttosto simbolica (ovvero come moltiplicazione dei codici e dei modelli culturali di riferimento) ha fatto emergere una pluralità di raggruppamenti sociali, trasversali alle tradizionali variabili socio-economiche, ai quali il soggetto aderisce spontaneamente, e che si basano sulla condivisione di valori, opinioni, atteggiamenti e comportamenti. Una peculiarità che contraddistingue oggi il soggetto è la graduale e progressiva sperimentazione di un inedito senso di libertà, al quale tuttavia è associato un altrettanto graduale e progressivo sgretolamento delle certezze, conseguente alla scomparsa di centri forti di identificazione e appartenenza sociale. Il contenuto simbolico dei prodotti della comunicazione (musica, cinema, televisione, letteratura, arti visive) funge da specchio per riflettere e confrontarsi con una realtà complessa come quella giovanile. Per questo è interessante guardare al rapporto tra i prodotti, o meglio all'offerta seduttiva e seducente dei prodotti, ed i “prosumatori”[11], i giovani: un rapporto nel quale viene individuata la necessità reciproca di dialogare, di intendersi, di attrarsi. Se si intende il consumo come una pratica regolata da un rapporto, si riconosce come, proprio attraverso il consumo, si costruisca uno spazio in cui dimensione individuale e dimensione sociale si incrociano. Lo spazio mediale è quindi proposto come vero e proprio spazio di transizione, in cui si inscrivono anche l'essere e il divenire dei giovani.
La centralità del consumo giovanile impone all’aziende assoluta vigilanza sui prodotti e i fenomeni che interessano l’universo giovanile, non solo per la capacità di spesa che essi possiedono, ma perché il modello di consumo prevalente è, oggi, centrato proprio sul consumo giovanile. La moda, nel corso degli ultimi decenni, ha acquistato sempre maggiore importanza presso i giovani; se negli anni Sessanta i ragazzi puntavano più che altro a distinguersi dalla “corrotta e comunista” società borghese, utilizzando abiti semplici e poveri (l’eschimo, i jeans, le minigonne), oggi, invece, la moda tra i giovani copre un ventaglio d’interessi e di motivazioni più ampio. L’immagine corporea ed i vestiti sono un elemento di supporto nel processo d’integrazione del sé; il tentativo è quello d’appoggiarsi ad oggetti esterni per facilitare l’emergere di rappresentazioni di una parte di sé, cui si sta cercando di dare più valore ed importanza.
Così come la definisce Barthes[12], si parla di moda tutte le volte che un consumo non è motivato da questioni funzionali; è un meccanismo generale che regola il nostro mercato delle merci e la produzione di plus-valore. Il sistema della moda mira ad ottenere una dinamica di appartenenza-differenziazione rispetto all’habitat sociale circostante, introducendo un coefficiente di novità all’interno di un sistema di segni fondamentalmente stabile.
I prodotti moda non soddisfano dei bisogni personali quanto piuttosto dei “non-bisogni” sociali: non si acquista un vestito, un paio di scarpe o un profumo perché si deve soddisfare una necessità primaria, ma lo si fa perché quel vestito, quelle scarpe e quel profumo appartengono all’aspirazione di realizzare un proprio desiderio inespresso.
L’ attenzione dei media e del mercato tende a normalizzare gli stili giovanili e la loro trasgressività diminuisce al crescere della loro diffusione. Il “nuovo giovane” non è più identificabile con uno stile di vita; egli tende ad identificarsi con un mondo che cambia e, quindi, il suo modo d’intendere l’abbigliamento è mutevole. Il consumatore delle nuove generazioni è più assimilabile al consumatore adulto che anzi tende ad imitarlo, assecondando un’identificazione che diviene trasversale alle diverse generazioni. Il mercato del consumo giovanile tende ad espandersi incredibilmente e gli stili che una volta identificavano le diverse generazioni tendono a confondersi a e integrarsi (il vestito formale è alternato ai jeans). L’abito non è più identificazione delle variabili strutturali dell’individuo (classe, status sociale, cultura, ecc.) ma diventa la manifestazione di un momento, la possibilità di rivelare un aspetto della propria multi-identificazione. Il giovane è oggi un consumatore trasversale che acquista prodotti di fasce di prezzo diverse e da canali distributivi diversi; lo stesso crescere di un’offerta di prodotto basico di fascia alta, per esempio, nasce dall’esigenza di identificarsi con modelli di consumo sofisticati, pur non abbandonando capi che appartengono alle radici del mondo giovanile. La centralità del consumo giovanile nel modello di consumo prevalente ha fatto sì che le aziende di moda fossero sempre più attente ai prodotti destinati alle nuove generazioni e ai fenomeni che le attraversano, non solo per il valore di spesa che essi rappresentano, ma anche per la loro importanza sul fronte promozionale. L’aziende di moda e il sistema nel complesso, non possono non considerare le scelte commerciali del consumo giovanile che tende sempre più ad ampliarsi, non per un fatto demografico quanto per un fenomeno culturale che porta a prolungare la giovinezza degli individui e quindi a rendere meno evidente il confine tra chi è giovane e chi no.
[1] Si tenga presente che il concetto di sé è in parte auto referenziale, in quando l’individuo tende ad interpretare gli stimoli ambientali in modo che assecondino le convinzioni e le valutazioni già consolidate. In pratica ciò significa che le nuove informazioni vengano acquisite e integrate nel concetto di sé se sono coerenti con esso. Se ciò non avviene le nuove informazioni possono essere alterate o rifiutate, onde evitare problemi di coerenza o sintonia con l’immagine che abbiamo di noi stessi.
[2] Cfr. Bauman Z. (a cura di Vecchi B.), Intervista sull’identità, Editori Laterza, Bari, 2006, pp. 95-99.
[3] “New media refers to new forms of human and media communication that have been transformed by the creative use of technology to fulfill the same basic social need to interact and transact. New media is also closely associated with the term ‘Web
[4] Bauman Z. (a cura di Vecchi B.), Intervista sull’identità, Editori Laterza, Bari, 2006, p. 95.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem, p.97.
[8] Ibidem.
[9] Cfr. McQuail D., Analisi dell’audience, Il Mulino, Bologna, 2001.
[10] Cfr. Maffesoli M., Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, Guerini e Associati, Milano, 2004.
[11] Pro-sumatore è una nuova dimensione del con-sumatore. Il neologismo si basa sull’afferenza della particella “pro” con il concetto di “vantaggio, favore, giovamento, utilità”. Esprime il concetto di un nuovo consumatore propenso a dimensioni ludiche, edonistiche e personalizzate dell’atto di scelta ed acquisto. Per questo, sono soprattutto i giovani ad essere pro-sumatori.
[12] Barthes R., Sistema della moda, Einaudi, Torino, 19270.
La brava gente....
...poteva farsi LEI le vacanze gratis...poteva...invece il signore ha ritrovato il portafoglio ed è partito tranquillo, per niente alleggerito...
domenica 26 agosto 2007
Da piccola mi dicevano: "occhio perchè arriva il Babau"
Comunque sia, da piccola, soprattutto mia madre, mi diceva sempre "occhio perchè arriva il Babau" ed io mi cacavo nel pannolino.
Stanotte ho sognato questa scena, mia madre che mi ricordava l'estistenza del Babau.
E mi è venuta la brillante idea di fare una ricerca googoliana per accertarmi dell'esistenza di questo "esserino".
Ciò che ne è emerso è sconvolgente. Esiste davvero.
Spesso capita che un incontro, l’inciampo in qualcosa di insolito e banalmente straordinario possa cambiare la nostra esistenza, si tratti pure di una piccolezza. Posso affermare senza aver paura di esagerare che così è successo per quanto mi riguarda con il libro, la raccolta di racconti di Dino Buzzati dal titolo “Le notti difficili” (Mondadori). Si tratta di 51 racconti brevi spesso anche suddivisi in più episodi, che intrecciano i temi cari all’autore fino a renderli universali: il mistero, la morte, l’attesa, il non senso, il lato tragicomico, surreale dell’esistenza.
Devo per sincerità confessare di non essermi troppo accostata in passato a Dino Buzzati se non per il “Deserto dei tartari” e “Il segreto del bosco vecchio” ma, dopo essermi trovata tra le mani questi racconti difficilmente credo riuscirò a non annoverarlo tra una delle letture più entusiasmanti che abbia mai fatto. In particolare ho gustato uno tra i racconti della raccolta, il “Babau” che narra appunto di un misterioso esserino da tempo immemore presente negli incubi e nell’immaginario di ogni bambino che si rispetti.
Il Babau è una figura emblematica, un simbolo, quello che, per dirla con Jung, riflette in modo palese “l’inconscio collettivo” ovvero una rappresentazione delle nostre paure, dei nostri demoni più nascosti, seppelliti dalla razionalità, dalle esigenze di un Io distinto dall’ES (le pulsioni per schematizzare) e dal SUPER-IO (la realtà circostante). Il concetto di inconscio collettivo è di ampio respiro, non è, per dirla con Jung “di natura individuale ma universale e cioè ha contenuti e comportamenti che sono gli stessi dappertutto e per tutti gli individui”. Come non pensare, a questo proposito, alle paure incarnate proprio dal Babau, alla sua doppia valenza di spauracchio ma anche di tenera creatura che rappresenta la fantasia, la libertà di pensiero? Non è un caso, infatti, che i bambini e le donne in particolare, siano gli eletti, le uniche creature sensibili in grado di percepire questa fragilità del Babau, gli unici che possono pregare per lui “ridestati da un oscuro richiamo” e sotto lo splendore della luna. Sterili e ridicoli appaiono i tentativi delle istituzioni, di uomini mediocri, marionette che si dibattono nel tentativo di cercare soluzioni per eliminare il turbatore della quiete, il capro espiatorio per eccellenza, colui di cui negavano l’esistenza ma che tormentava le notti ed i sogni, il Babau, appunto. In questo quadro surreale ed ironico la scena madre che si compone a poco a poco è proprio quella dell’eliminazione dell’esserino, scena bizzarra e dai toni angoscianti che svela in toto la duplice natura del Babau,che si sgonfia come palloncino bucato, ridicolizzando così i timori e le paure dell’allarmata comunità.
La mediazione psichica che si opera tra le angosce più pressanti e questo aspetto “creativo” e formativo, proprio del crescere dell’individuo, rappresentate appunto sotto forma di un qualsiasi Babau è stata spesso materia, terreno fertile per la letteratura che da sempre si è occupata di questi terreni di confine. Basti pensare ad Oscar Wilde, ad Edgar Allan Poe, ai poeti maledetti ed ai loro demoni, a Dino Campana, al tema della follia che spesso si intreccia sapientemente a quello della paura della morte ma anche della vita stessa. Ritroviamo così anche il “doppio”, la natura ambigua dell’uomo, del suo essere nel mondo mai senza contraddizione, quindi per parafrasare J. Hillman la messa in risalto, in primo piano, della “parte in ombra” , quella celata anche all’individuo stesso, della sua stessa Anima.
Il negativo dell’anima è anche al centro da sempre dell’interesse delle fiabe, dei racconti popolari, è parte integrante della struttura stessa del sapere tramandato di generazione in generazione; sarebbe però più corretto parlare di racconto fantastico nel caso del “Babau” di Dino Buzzati conferendogli le connotazioni che allo stesso attribuisce Caillois in “Dalla fiaba alla fantascienza” quando afferma che: “il fantastico presuppone la solidità del mondo reale ma per meglio distruggerla…L’apparizione è lo strumento essenziale del fantastico: ciò che non può accadere e che tuttavia si produce, in un punto e in un istante precisi, nel cuore di un universo perfettamente sondato e dal quale si credeva bandito per sempre il mistero. Tutto appare come ogni giorno: tranquillo, banale, senza nulla di insolito, ed ecco che lentamente si insinua, o all’improvviso erompe, l’inammissibile.”
Come chiarisce sempre Caillois, la letteratura fantastica è prima di tutto un “gioco” con la paura in cui gli autori lasciano il lettore libero di scegliere, lo inchiodano all’angosciante responsabilità di negare o affermare il soprannaturale.
E’ un richiamo proprio a questa enorme, illimitata libertà quella che Buzzati si concede alla fine del racconto, è un inno alla fantasia, schiacciata sempre di più da un mondo che ha necessità di eliminarla :
“Galoppa, fuggi, galoppa, superstite fantasia. Avidi di sterminarti ilo mondo civile ti incalza alle calcagna, mai più ti darà pace…”
giovedì 23 agosto 2007
Come e perché si scelgono i luoghi di consumo ed i punti vendita?
I luoghi di consumo hanno assunto, oggi, una definizione sempre più astratta: i “loci definiti” di Yates non sono soltanto luoghi fisici in cui collochiamo mentalmente le azioni attuabili al suo interno, ma sono aree anche “virtuali” in cui è possibile consumare. I punti vendita sono luoghi di consumo, ma non viceversa (intendendo come consumo già l’atto d’acquisto). I luoghi in cui è possibile consumare non è detto che siano luoghi in cui viene resa disponibile la merce e venduta. Un parco cittadino è un luogo di consumo (le famigliole che fanno il pic-nic la domenica, i bambini che fanno la merenda “al sacco” nel pomeriggio) ma non è un punto vendita. Il punto vendita è la sede di acquisto\vendita aperta al pubblico, nella quale i prodotti sono resi disponibili ai clienti.
L’interpretazione di Daniel Miller dello shopping come gratificazione, ricompensa ed esperienza non è mai stata tanto attuale. Si riconferma, ancora oggi, un’immagine del consumatore abbozzata negli anni Ottanta, un consumatore in cerca di divertimento e gratificazione anche nelle pratiche più quotidiane dell’acquisto: immagine più nitida e sempre più dettagliata. L’industria ha reso sempre più dettagliata la fotografia del proprio consumatore, per poterlo vedere meglio, più da vicino e nei minimi particolari. Poter conoscere il possibile acquirente rende più avvicinabile il prodotto ed il messaggio che questo comunica, in quanto si rende il prodotto stesso ed il messaggio più “avvicinabile”, “accettabile” e “voluto” dal cliente.
Negli ultimi dieci anni il modo di fare shopping è cambiato notevolmente. Questa trasformazione, non tanto lenta, è avvenuta per una serie di motivazioni spesso concomitanti: la necessità delle aziende di rendere gli stimoli dei propri prodotti\messaggi più acquisibili di altri, sempre più abbondanti; accondiscendere le necessità ludiche ed edonistiche dei consumatori nei punti vendita\luoghi di consumo; rendere personalizzabili i prodotti, in modo da avvicinarli ancor di più agli acquirenti; ecc. .
I luoghi di acquisto sono diventati dei veri e propri meeting point per tutti coloro che condividono un simile sistema di valori: è lì che si danno appuntamento i gruppi omogenei di consumatori, soprattutto giovani, ma non necessariamente. Questi luoghi dispongono di spazi accoglienti e multifunzionali. I nuovi punti vendita diventano veri e propri spazi di permanenza al confine fra il retail e l’entertainment. Il luogo di acquisto è, oggi, un luogo di esperienza che non soddisfa più soltanto fabbisogni funzionali ma, anche e soprattutto, fabbisogni edonistici. Decenni fa i punti vendita erano soltanto luoghi di scambio di beni: oggi sono luoghi di incontro e di intrattenimento, luoghi di relazione.
Già nel 1972, Tauber[3] riteneva che il comportamento d’acquisto fosse influenzato sia da motivazioni di tipo personale sia da fattori di tipo sociale. Tra le motivazioni di tipo personale figuravano: l’allontanamento dalla routine, il bisogno di autogratificazione, la raccolta di informazioni sui nuovi trends, mode e innovazioni, l’esercizio fisico, ricevere stimoli sensoriali dall’ambiente di vendita. Le motivazioni di tipo sociale riguardavano i bisogni di interazione sociale al di fuori del proprio ambiente familiare, la comunicazione con altri individui, l’appartenenza a gruppi, il miglioramento del proprio status, la soddisfazione che deriva dall’attività di negoziazione.
Le emozioni scatenano le reazioni nei consumatori. Si studia l’ambiente di vendita e di consumo e la sua influenza sulla sfera emozionale delle persone proprio per questo. Si cerca di generare emozioni tramite la “shipping experience”.
Gli anni Novanta hanno rappresentato un lungo momento di ripensamento generale sulla nostra condizione di vita che ha generato nuovi atteggiamenti da parte del pubblico dei consumatori. Atteggiamenti determinati certamente da una riduzione progressiva del potere di acquisto, dall’aumento dell’insicurezza rispetto al futuro, ma anche conseguenza della quantità crescente di informazioni di natura commerciale e non.
In tale situazione, il prodotto non è più una certezza e neanche l’unica motivazione di acquisto: il consumatore cerca rassicurazioni da parte del brand o nuove esperienze associate alla visita nei punti di vendita. Le parole chiave dello shopping experience diventano estetica, personalizzazione e pragmatismo ed il retail deve sapersi adattare fornendo risposte adeguate creando a sua volte le condizioni per un’efficace “retail experience”.
Le logiche che guidano la realizzazione di un flagship store[4] sono profondamente diverse da quelle che stanno alla base della progettazione di un grande ipermercato o di un centro commerciale. La prima formula è obbligata a seguire le tendenze e ad adeguarsi ai flussi di consumo. I secondi sono, invece, guidati da strategie che considerano limitati cambiamenti strutturali, se non nel lungo periodo, e continui adeguamenti negli assortimenti.
La dimensione esperienziale unisce tutte queste realtà commerciali, indipendentemente dalla dimensione o dal prodotto proposto. In realtà, il fenomeno del coinvolgimento emozionale nello shopping è antico se non quanto il mondo almeno quanto il commercio. Basti pensare all’evoluzione dei mercati ed alla capacità d’attrazione dei centri storici delle città. Pur cambiando le forme del commercio, dal tradizionale al moderno, i consumatori continuano a vivere in spazi compressi dove tutto si mescola e si confonde, l’esotico con il locale, il pregiato con il dozzinale, ostacolando lo sviluppo dei percorsi esperienziali necessari per valorizzare e far apprezzare le caratteristiche distintive dei prodotti. In tali spazi compressi le persone sono bombardate da messaggi e da simboli al punto che, per poter tracciare una mappa del luogo, ognuno è costretto a costruirselo mentalmente assegnando arbitrariamente significati e simboli alle merci, agli spazi e alle insegne così da avere un panorama rassicurante e conosciuto.
Tra i loci di cui parla Frances A. Yates ci sono certamente i nuovi templi dello shopping, gli spazi commerciali in cui l’uomo contemporaneo spende grande parte del proprio tempo e del proprio denaro. Gli spazi commerciali cambiano ruolo e connotazione trasformandosi da luoghi dove effettuare gli acquisti in aree di permanenza, informazione, socializzazione, apprendimento e memoria. Cosa sta succedendo? Il cliente, o meglio la parte più dinamica e critica di tale aggregato, vuole essere il protagonista delle proprie scelte di consumo e trova spazi a libero servizio o a vendita assistita ispirati a nuove logiche non solo di desig ma anche di coinvolgimento emozionale. Lo spazio commerciale può essere anche gratificante sul piano emotivo perché attiva nel consumatore la componente edonistica dell’atto di acquisto connessa solo marginalmente ai benefici derivanti da ciò che si compra. E’ il luogo in cui lo shopping influenza gli acquisti e aggiunge nuovi elementi esperienziali. Il cliente, nella prospettiva del marketing emozionale, è visto come una “persona” da conoscere sempre meglio, quasi da “amare”, per soddisfare non solo i suoi bisogni, ma soprattutto i suoi desideri. Il marketing studia le emozioni da tempo e sa come progettare il prodotto giusto nel momento giusto. Il creativo sa come trasformare i bisogni del marketing elaborando pubblicità in grado di attivare i meccanismi più nascosti. Il designer sa leggere le tendenze del gusto e le traduce in oggetti.
I consumatori cercano per quanto riguarda il miglioramento dei luoghi dello shopping sette “effetti”[5]:
- effetto sorpresa, per rendere meno ovvia e più viva l’esistenza, per articolare maggiormente il panorama della routine quotidiana, per risvegliare il desiderio nella società dell’abbondanza;
- cura dei dettagli, intesi come massima prova della passione per la qualità e della tensione della perfezione;
- “mixability”, ovvero attenzione alla scomponibilità degli stimoli visivi, alla regia d’insieme delle percezioni attivate, in modo che il mix consenta un libero gioco combinatorio da parte dell’utilizzatore;
- flessibilità, ossia capacità di linee e colori di non essere o apparire troppo strettamente vincolati ad un solo significato;
- capacità di rassicurazione, evitando l’eccessiva aggressività, lo choc provocatorio, l’urlo ansiogeno. Nel design e nell’uso del colore va abbandonata la dicotomia fra banalità non sorprendente e “ferite agli occhi” che minano gli equilibri a cui siamo ancorati;
- morbidezza degli stimoli, che sono indiretti e soffusi (le luci), non enfatici o spigolosi (i dettagli), pastosi e soft (le tonalità). E’ quello che sostiene di preferire il 60 per cento degli adulti, tra cui le donne, i consumatori di stampa e libri, i laureati o diplomati, i soggetti di classi medio-alta, gli spettatori cinematografici;
- empatia per la marca.
Il consumatore odierno è cambiato profondamente rispetto a quello di pochi anni orsono. Emerge una figura ben delineata di consumatore sempre più attento alla qualità ed all’estetica, capace di destreggiarsi in una vasta offerta di prodotti, valutando accuratamente vantaggi e servizi connessi. E’ un consumatore “leggero” ed edonista, cioè sempre più orientato al presente e sempre meno al passato o al futuro: questo implica un cambiamento anche nel modo di intendere la sua relazione con i prodotti. Proprio in considerazione di tali modifiche il termine stesso “consumatore” è ritenuto ormai obsoleto[6].
[1] Yates F.A., The art of memory, Pimlico, London, 1992, p. 224.
[2] Prima opera retorica in latino, composta intorno agli anni Ottanta del I secolo a. C. da un anonimo. Riflette gli insegnamenti impartiti alla scuola di retorica di Plozio Gallo: Cicerone, al quale l’opera viene attribuita per tutta l’epoca medievale, vi attinse per il suo De inventione, altro caposaldo della trattatistica retorica del medioevo.
[3] Cfr. Tauber E., Why do people shop?, Journal of Marketing, 36, ottobre, 1972.
[4] Negozio monomarca di dimensioni medio-piccole.
[5] Gallucci F., Marketing emozionale, Egea, Milano, 2005, p. 97.
[6] Calvi G., Dimentichiamoci del consumatore: l’appuntamento è con il cliente, Micro & Macro Marketing, n.1, 1992, pp. 7-28.
martedì 21 agosto 2007
Il telefonino è usato, oggi, per telefonare?!?
L’interesse culturale che questo oggetto riveste è dovuto alla quotidianità del suo uso, assunta nel corso degli anni, dalla vendita del primo telefonino negli anni Ottanta negli Stati Uniti[3] ad oggi. Già nel 1995 il telefonino veniva considerato un oggetto quotidiano a tutti gli effetti, ovvero un “correlato abituale e corrente delle pratiche di vita ordinarie dei membri di un gruppo, di una comunità o di una società”[4]. A questa quotidianità acquisita è seguito un sempre maggiore investimento estetico e tecnologico di questi oggetti, nelle forme, nei colori, nei materiali, nei software e nelle applicazioni e funzioni. Come se l’uso quotidiano dell’oggetto stesso potesse inglobare anche altri oggetti, di uso più sporadico e meno pratico e come se il fatto di abitare il corpo di milioni di persone legittimassero quest’ultime a voler un oggetto anche bello da guardare e mostrare. Sono divenuti centrali i ruoli assunti dal design e dalla tecnologia hardware e software. La grande trasformazione che ha subito questo oggetto è quella di essersi tramutato da “terminale telefonico”, strumento mobile per comunicare, in un “terminale dati”, uno strumento per archiviare, gestire e classificare una serie di dati eterogenei, audio e video, in unica unità digitale. Nel corso del tempo, il telefono cellulare si è via via ibridato con fotocamere, agende, registratori e pc palmari divenendo un dispositivo portatile multifunzionale: la mobilità è divenuta la caratteristica semantica fondamentale dell’oggetto. Oggi, il telefonino, sempre più accattivante e personalizzabile nel design e colmo di informazioni personali, non è semplicemente integrato nelle pratiche quotidiane, ma integrato negli individui stessi.
Secondo Barthes, un telefono non serve esclusivamente per telefonare, poiché “c’è sempre un senso che va oltre l’uso dell’oggetto. Possiamo immaginare un oggetto più funzionale di un telefono? Tuttavia, un telefono ha sempre un senso indipendente dalla sua funzione: un telefono bianco trasmette una certa idea del lusso o della femminilità; vi sono telefoni burocratici, vi sono telefoni fuori moda che trasmettono l’idea di una certa epoca; insomma, il telefono stesso può far parte di un sistema di oggetti-segni”[5]. Il messaggio dell’oggetto-segno, oltre alla propria funzione, possiede “un secondo senso, diffuso, generalmente ideologico”[6] il quale rimanda ad una serie di valori simbolici di carattere sociale e culturale. Anche le riflessioni di Umberto Eco sugli oggetti d’uso partono dall’assunzione dicotomica uso\simbolo: “una sedia mi dice anzitutto che posso sedermici sopra. Ma se la sedia è un trono, non deve servire solo a se dermici: serve a far sedere con una certa dignità. Serve a corroborare l’atto del sedere con dignità attraverso una serie di segni accessori che connotino la regalità (aquile sui braccioli, spalliera alta sormontata da corona, ecc.”[7].
La componente funzionale di un oggetto è articolabile in “tre dimensioni della cultura”[8]: la dimensione funzionale, vale a dire le azioni rese possibili dall’oggetto, la dimensione mitica, ovvero l’universo assiologico[9] coinvolto nell’oggetto, e la dimensione estetica, che riguarda l’attribuzione di giudizi qualitativi sull’aspetto dell’oggetto.
Un telefonino si relaziona con l’utente non solo tramite i propri elementi morfologici, ma sempre di più tramite la sua interfaccia grafica. Si può osservare come ad una progressiva valorizzazione della dimensione estetica di questi oggetti sia corrisposta una progressiva dematerializzazione degli stessi, nella misura in cui il luogo dell’interfaccia grafica ha acquisito una presenza sempre più invadente nella configurazione dell’oggetto. Più precisamente, per dematerializzazione non si intende la sparizione di oggetti fisici ma un processo che può riassumersi in tre aspetti[10]: l’implementazione di funzioni via software, la diminuzione del lavoro d’attivazione di comandi, la miniaturizzazione delle componenti hardware.
Il primo processo è visibile nei nuovi telefonini multimediali che integrano funzionalità diverse dal loro primordiale scopo e che stanno portando alla scomparsa di oggetti simili: dai più semplici (radiosveglie o calcolatrici) ai più complessi (agende elettroniche, fotocamere digitali, lettori musicali). Questo fenomeno può essere interpretato come una cannibalizzazione che il telefonino opera nei confronti di altri oggetti portatili. Il modello di telefono cellulare che più di tutti ha “rubato” ruoli ai restanti “piccoli oggetti di elettronica di consumo” è il Nokia N95: connettività ad infrarossi, bluetooth, wi-fi (un vero e proprio piccolo modem e pc portatile), lettore musicale, fotocamera digitale da 5.0 megapixel, memoria espandibile tramite memory card, ecc. .
Si è cercato di diminuire il lavoro d’attivazione di comandi attraverso lo sviluppo di tecnologie touch screen: dispositivo hardware che consente all'utente di interagire con un sistema operativo software toccando lo schermo. Lo si può dunque considerare come l'unione di un dispositivo di output (lo schermo) e un dispositivo di input (il sistema che rileva il contatto con lo schermo stesso, ricavandone la posizione). Quest'ultimo meccanismo è alternativo all'uso di altri dispositivi di puntamento come il mouse od i tasti.
La miniaturizzazione delle componenti hardware è avvenuta con la sempre più “portabilità” dell’oggetto, rendendolo, cioè, sempre più piccolo.
A tutti questi aspetti evolutivi tecnologici, si è unita la necessità di concorrere nel mercato della telefonia mobile rendendo l’oggetto anche fashionable. Il modello di telefonino LG KE850 PRADA è la dimostrazione di ciò che è attualmente la tendenza delle aziende produttrici di telefonia mobile: fare del telefonino uno style simbol, per bellezza, design, usufruibilità, tecnologie diversificate ed implementate, funzioni diverse, ecc. .
E’ il consumatore a scegliere la tipologia d’oggetto che più si avvicina al suo stile di vita e che riesce a comunicarlo, facendolo personale oggetto di “memoria” (memorizzazione di dati, file, immagini, ecc.), contatto (poter chiamare e massaggiare gli utenti della rubrica) e valore ostentativo (merce da mostrare intrisa di significati). Il telefono cellulare è l’oggetto tecnologico che più di tutti, ad oggi, ha perso, e continua a perdere, valore strettamente d’uso (la sua funzione primaria, il chiamare e poter parlare con altri soggetti distanti) e acquista sempre più valore simbolico\sociale (far parte di una comunità, rimanere sempre connessi a questa e poter mostrare a quest’ultima l’oggetto stesso).
[1] Pintori E., Design delle interfacce, www.ocula.it.
[2] Il significare ed il suo risultato.
[3] Il primo modello di telefono portatile in commercio, il Motorola Dyna-TAC 8000X del 1983, pesava circa un chilo, era alto
[4] Semprini A., L’object comme procès et comme action, L’Harmattan, Paris, 1995; traduzione italiana: L’oggetto come processo e come azione. Per una sociosemiotica della vita quotidiana, Esculapio, Bologna, 1996, cit. p. 14.
[5] Roland B., L’aventure sémiologique, Seuil, Paris, 1985; traduzione italiana: L’avventura semiologica, Einaudi, Torino, 1991, cit. p. 40.
[6] Ibidem, cit. p. 35.
[7] Eco U., La struttura assente, Bompiani, Milano, 1968, cit. p. 206.
[8] Cfr. Greimas A.J., De l’imperfection, Pierre Fanlac, Périgueux, 1987; traduzione italiana: Dell’imperfezione, Sellerio, Palermo, 1988.
[9]Basato su criteri di valore.
[10] Cfr. Norman D., The invisible computer, MIT, Cambridge, 1998; traduzione italiana: Il computer invisibile, Apogeo, Milano, 2000.
Qualsiasi cosa a Parma è dedicata a Verdi.
Come il trend del momento, anche la famigliola ha perso le valigie. Non sono arrivate.
Ma in questa sede voglio sottolineare una grandissima buffonata di Parma: il bar dell'aeroporto è più grosso dell'aeroporto stesso. Non c'erano posti da sedere, sale d'attesa, a tal punto che mi son dovuta sparare un caffè macchiato al bar per potermi sedere e leggere il giornale.
E poi, perchè a Parma si dedica tutto a Giuseppe Verdi?!? Non a caso l'aeroporto di Parma si chiama Giuseppe Verdi.
sabato 18 agosto 2007
Per la rubrica: le cose che vedo strabilianti.
"Facciamo 2 parole...."
Uscire a cena con la Vero per "fare 2 parole" è sinonimo di "certezza di ubriacarsi di risa". Il fatto che durante una cena fra due amiche, quest'ultime chiamino anche le altre, a turno, in vacanza e comincino a fare 2 parole anche con loro è malattia però. Femminile. Non credo nessun uomo riesca ad instaurare un tale "degenero positivo" a tavola o durante una serata con un amico o più amici.
Di cosa parlano 2 amiche intime a cena?!? Leggende metropolitane vogliono che due donne parlino di cazzo, moda, maquillage.
Questo avviene se si è state lobotomizzate.
Non è il nostro caso. Mi piace molto ciò di cui parlo con la Vero, e questo credo dipenda da ciò che è la mia natura e la sua. Si, si parla anche di moda, tanto, e maquillage.... ma anche di tutt'altro, di quello che dà un senso alla serata..forse vita..e non è il cazzo.
P.S. Ho trovato il mascara perfetto. Blackout di Dior, mai nome fu tanto azzeccato.
domenica 12 agosto 2007
Tornatore the best, Parma idem...
Il film preso in visione è stato LA SCONOSCIUTA di Giuseppe Tornatore.
Quest'uomo è un genio, di una raffinatezza visiva e di contenuto unici. Consiglio il film. Già dalle prime scene ho cominciato a scendere in un abisso tormentato....ecco lo dico.... il film fa stare "da culo", proprio perchè è perfetto, reale, concreto, lineare.
Tornatore non sbaglia mai, nemmeno in un frangente di scena.
All'uscita dal cinema, ho passeggiato con Denise verso il centro di Parma, via Farini, fino a Piazza Garibaldi.... di sera è sempre stupenda Parma.... ma il bello di Parma è che è stupenda anche di giorno. Credo che sia l'unica città che abbia mai realmente apprezzato, imparato a vivere ed ad amare.
Consiglio, ulteriormente, la tagliata di frutta e gelato, ordinata da Denise, e la Gran Caffè Crème, ordinata da me, presso il Gran Caffè Orientale. Sedute ad un tavolo nella veranda esterna di questo bar di classe (ehm, io non avrei potuto fare diversamente.... :-O), proprio su una piazza illuminata e stranamente tranquilla (solo perchè è agosto), piazza Garibaldi, "il tutto" era talmente sereno, equilibrato e di gran agio che ci siamo alzate alle 2 dal tavolo, avendo semplicemente parlato, e sempre dello stesso argomento, e mangiucchiato\bevuto divinamente.
Una bella serata.
sabato 11 agosto 2007
The importance of the small things
L'ispirazione per questo post mi è stata data da Monia, una mia cara amica, indirettamente, stamane a colazione, al nostro solito bar "Lifferia" di Montecchio Emilia.
Stamattina ho preso solo un caffè macchiato, ho saltato il "futatsu tosto".... ma in compenso ho avuto, comunque, pane per i miei denti.
Settimane fa, durante una nostra passeggiata, Monia mi disse: "possiamo fermarci un attimo in edicola?!? Vorrei prendere Topolino..." non mi ricordo per chi fosse però il giornale... Una volta in edicola noto che in regalo con la rivista di fumetti c'è un pezzo di aereoplanino, l'aereoplanino di Paperinik. Scherzando (ma anche sul serio) le dissi: "che bello Mo, mi divertirei come una matta a montare un "coso" del genere". Per completare l'aereoplanino ci sono voluti parecchi numeri di Topolino, perchè ogni numero aveva in regalo un pezzo singolo.
Stamane Monia mi ha portato al bar tutti i pezzi, tenutimi da parte, per farmeli montare.... e per tenermi il gioiellino finito con Paperinik.
Queste sono piccole cose: piccoli pezzetti di plastica montabili, un aereoplanino composto, bello, molto.... che metterò su una mensolina.... ma il valore grande, non piccolo, di una persona, un'Amica, che ha pensato a cosa le avevo detto più di un mese fa... sorridendo... quasi scherzando. Ho provato una gioia immensa, per due motivi, stamane: 1. perchè conosco una persona come Monia; 2. perchè esistono persone di tal fatta. Ciò mi incoraggia sempre più a sostenere persone e cose di cuore puro e concreto.
I think they are great!
E allora Alessandra cosa fa?!? Ricerca subito ulteriori informazioni sul web. Le notizie, informazioni, sono confortanti, a tal punto che non ci sto più dentro.
Li compro.
Ed eccoli, appena arrivati stamane dalla Gran Bretagna (ovviamente in Italia non sono ancora in commercio, arriviamo quando c'è la puzza.... cioè dopo che la scoreggina è già stata fatta da tutti gli altri).
Comodissime e soprattutto sono già andata in bagno 5 volte (urina) dalle 11 di stamattina. Ormai sono le 17....
The fitflop, il nome è tutto un programma. Grazie ad una suola ergonomica, al materiale e alla tecnologia della sua struttura fa allenare i muscoli delle gambe, drenarle, mentre cammini e fai il minimo movimento con questi "zocchy" ai piedi. Continuerò ad indossarli durante il giorno e vi darò feedback, vi terrò informati.
Questa volta io, però, sono arrivata prima della puzza.