I luoghi di consumo hanno assunto, oggi, una definizione sempre più astratta: i “loci definiti” di Yates non sono soltanto luoghi fisici in cui collochiamo mentalmente le azioni attuabili al suo interno, ma sono aree anche “virtuali” in cui è possibile consumare. I punti vendita sono luoghi di consumo, ma non viceversa (intendendo come consumo già l’atto d’acquisto). I luoghi in cui è possibile consumare non è detto che siano luoghi in cui viene resa disponibile la merce e venduta. Un parco cittadino è un luogo di consumo (le famigliole che fanno il pic-nic la domenica, i bambini che fanno la merenda “al sacco” nel pomeriggio) ma non è un punto vendita. Il punto vendita è la sede di acquisto\vendita aperta al pubblico, nella quale i prodotti sono resi disponibili ai clienti.
L’interpretazione di Daniel Miller dello shopping come gratificazione, ricompensa ed esperienza non è mai stata tanto attuale. Si riconferma, ancora oggi, un’immagine del consumatore abbozzata negli anni Ottanta, un consumatore in cerca di divertimento e gratificazione anche nelle pratiche più quotidiane dell’acquisto: immagine più nitida e sempre più dettagliata. L’industria ha reso sempre più dettagliata la fotografia del proprio consumatore, per poterlo vedere meglio, più da vicino e nei minimi particolari. Poter conoscere il possibile acquirente rende più avvicinabile il prodotto ed il messaggio che questo comunica, in quanto si rende il prodotto stesso ed il messaggio più “avvicinabile”, “accettabile” e “voluto” dal cliente.
Negli ultimi dieci anni il modo di fare shopping è cambiato notevolmente. Questa trasformazione, non tanto lenta, è avvenuta per una serie di motivazioni spesso concomitanti: la necessità delle aziende di rendere gli stimoli dei propri prodotti\messaggi più acquisibili di altri, sempre più abbondanti; accondiscendere le necessità ludiche ed edonistiche dei consumatori nei punti vendita\luoghi di consumo; rendere personalizzabili i prodotti, in modo da avvicinarli ancor di più agli acquirenti; ecc. .
I luoghi di acquisto sono diventati dei veri e propri meeting point per tutti coloro che condividono un simile sistema di valori: è lì che si danno appuntamento i gruppi omogenei di consumatori, soprattutto giovani, ma non necessariamente. Questi luoghi dispongono di spazi accoglienti e multifunzionali. I nuovi punti vendita diventano veri e propri spazi di permanenza al confine fra il retail e l’entertainment. Il luogo di acquisto è, oggi, un luogo di esperienza che non soddisfa più soltanto fabbisogni funzionali ma, anche e soprattutto, fabbisogni edonistici. Decenni fa i punti vendita erano soltanto luoghi di scambio di beni: oggi sono luoghi di incontro e di intrattenimento, luoghi di relazione.
Già nel 1972, Tauber[3] riteneva che il comportamento d’acquisto fosse influenzato sia da motivazioni di tipo personale sia da fattori di tipo sociale. Tra le motivazioni di tipo personale figuravano: l’allontanamento dalla routine, il bisogno di autogratificazione, la raccolta di informazioni sui nuovi trends, mode e innovazioni, l’esercizio fisico, ricevere stimoli sensoriali dall’ambiente di vendita. Le motivazioni di tipo sociale riguardavano i bisogni di interazione sociale al di fuori del proprio ambiente familiare, la comunicazione con altri individui, l’appartenenza a gruppi, il miglioramento del proprio status, la soddisfazione che deriva dall’attività di negoziazione.
Le emozioni scatenano le reazioni nei consumatori. Si studia l’ambiente di vendita e di consumo e la sua influenza sulla sfera emozionale delle persone proprio per questo. Si cerca di generare emozioni tramite la “shipping experience”.
Gli anni Novanta hanno rappresentato un lungo momento di ripensamento generale sulla nostra condizione di vita che ha generato nuovi atteggiamenti da parte del pubblico dei consumatori. Atteggiamenti determinati certamente da una riduzione progressiva del potere di acquisto, dall’aumento dell’insicurezza rispetto al futuro, ma anche conseguenza della quantità crescente di informazioni di natura commerciale e non.
In tale situazione, il prodotto non è più una certezza e neanche l’unica motivazione di acquisto: il consumatore cerca rassicurazioni da parte del brand o nuove esperienze associate alla visita nei punti di vendita. Le parole chiave dello shopping experience diventano estetica, personalizzazione e pragmatismo ed il retail deve sapersi adattare fornendo risposte adeguate creando a sua volte le condizioni per un’efficace “retail experience”.
Le logiche che guidano la realizzazione di un flagship store[4] sono profondamente diverse da quelle che stanno alla base della progettazione di un grande ipermercato o di un centro commerciale. La prima formula è obbligata a seguire le tendenze e ad adeguarsi ai flussi di consumo. I secondi sono, invece, guidati da strategie che considerano limitati cambiamenti strutturali, se non nel lungo periodo, e continui adeguamenti negli assortimenti.
La dimensione esperienziale unisce tutte queste realtà commerciali, indipendentemente dalla dimensione o dal prodotto proposto. In realtà, il fenomeno del coinvolgimento emozionale nello shopping è antico se non quanto il mondo almeno quanto il commercio. Basti pensare all’evoluzione dei mercati ed alla capacità d’attrazione dei centri storici delle città. Pur cambiando le forme del commercio, dal tradizionale al moderno, i consumatori continuano a vivere in spazi compressi dove tutto si mescola e si confonde, l’esotico con il locale, il pregiato con il dozzinale, ostacolando lo sviluppo dei percorsi esperienziali necessari per valorizzare e far apprezzare le caratteristiche distintive dei prodotti. In tali spazi compressi le persone sono bombardate da messaggi e da simboli al punto che, per poter tracciare una mappa del luogo, ognuno è costretto a costruirselo mentalmente assegnando arbitrariamente significati e simboli alle merci, agli spazi e alle insegne così da avere un panorama rassicurante e conosciuto.
Tra i loci di cui parla Frances A. Yates ci sono certamente i nuovi templi dello shopping, gli spazi commerciali in cui l’uomo contemporaneo spende grande parte del proprio tempo e del proprio denaro. Gli spazi commerciali cambiano ruolo e connotazione trasformandosi da luoghi dove effettuare gli acquisti in aree di permanenza, informazione, socializzazione, apprendimento e memoria. Cosa sta succedendo? Il cliente, o meglio la parte più dinamica e critica di tale aggregato, vuole essere il protagonista delle proprie scelte di consumo e trova spazi a libero servizio o a vendita assistita ispirati a nuove logiche non solo di desig ma anche di coinvolgimento emozionale. Lo spazio commerciale può essere anche gratificante sul piano emotivo perché attiva nel consumatore la componente edonistica dell’atto di acquisto connessa solo marginalmente ai benefici derivanti da ciò che si compra. E’ il luogo in cui lo shopping influenza gli acquisti e aggiunge nuovi elementi esperienziali. Il cliente, nella prospettiva del marketing emozionale, è visto come una “persona” da conoscere sempre meglio, quasi da “amare”, per soddisfare non solo i suoi bisogni, ma soprattutto i suoi desideri. Il marketing studia le emozioni da tempo e sa come progettare il prodotto giusto nel momento giusto. Il creativo sa come trasformare i bisogni del marketing elaborando pubblicità in grado di attivare i meccanismi più nascosti. Il designer sa leggere le tendenze del gusto e le traduce in oggetti.
I consumatori cercano per quanto riguarda il miglioramento dei luoghi dello shopping sette “effetti”[5]:
- effetto sorpresa, per rendere meno ovvia e più viva l’esistenza, per articolare maggiormente il panorama della routine quotidiana, per risvegliare il desiderio nella società dell’abbondanza;
- cura dei dettagli, intesi come massima prova della passione per la qualità e della tensione della perfezione;
- “mixability”, ovvero attenzione alla scomponibilità degli stimoli visivi, alla regia d’insieme delle percezioni attivate, in modo che il mix consenta un libero gioco combinatorio da parte dell’utilizzatore;
- flessibilità, ossia capacità di linee e colori di non essere o apparire troppo strettamente vincolati ad un solo significato;
- capacità di rassicurazione, evitando l’eccessiva aggressività, lo choc provocatorio, l’urlo ansiogeno. Nel design e nell’uso del colore va abbandonata la dicotomia fra banalità non sorprendente e “ferite agli occhi” che minano gli equilibri a cui siamo ancorati;
- morbidezza degli stimoli, che sono indiretti e soffusi (le luci), non enfatici o spigolosi (i dettagli), pastosi e soft (le tonalità). E’ quello che sostiene di preferire il 60 per cento degli adulti, tra cui le donne, i consumatori di stampa e libri, i laureati o diplomati, i soggetti di classi medio-alta, gli spettatori cinematografici;
- empatia per la marca.
Il consumatore odierno è cambiato profondamente rispetto a quello di pochi anni orsono. Emerge una figura ben delineata di consumatore sempre più attento alla qualità ed all’estetica, capace di destreggiarsi in una vasta offerta di prodotti, valutando accuratamente vantaggi e servizi connessi. E’ un consumatore “leggero” ed edonista, cioè sempre più orientato al presente e sempre meno al passato o al futuro: questo implica un cambiamento anche nel modo di intendere la sua relazione con i prodotti. Proprio in considerazione di tali modifiche il termine stesso “consumatore” è ritenuto ormai obsoleto[6].
[1] Yates F.A., The art of memory, Pimlico, London, 1992, p. 224.
[2] Prima opera retorica in latino, composta intorno agli anni Ottanta del I secolo a. C. da un anonimo. Riflette gli insegnamenti impartiti alla scuola di retorica di Plozio Gallo: Cicerone, al quale l’opera viene attribuita per tutta l’epoca medievale, vi attinse per il suo De inventione, altro caposaldo della trattatistica retorica del medioevo.
[3] Cfr. Tauber E., Why do people shop?, Journal of Marketing, 36, ottobre, 1972.
[4] Negozio monomarca di dimensioni medio-piccole.
[5] Gallucci F., Marketing emozionale, Egea, Milano, 2005, p. 97.
[6] Calvi G., Dimentichiamoci del consumatore: l’appuntamento è con il cliente, Micro & Macro Marketing, n.1, 1992, pp. 7-28.
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